„Massaker von Porzûs“ – Versionsunterschied
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[[File:Comando Garibaldi Natisone.png|thumb|350px|Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici a Zakriž (Slovenia) nel gennaio 1945. Il primo a sinistra è il commissario politico [[Giovanni Padoan]] "Vanni", al centro con la barba il comandante Mario Fantini "Sasso", il primo a destra è il capo di stato maggiore Albino Marvin "Virgilio". I primi due saranno imputati nel processo per l'eccidio]] |
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Nella seconda metà del 1944 si moltiplicarono le pressioni slovene sui comandi osovani, contestualmente a una serie di accuse — sia da parte slovena che garibaldina — di intese della Osoppo con nazisti e fascisti con i quali sarebbero stati presi accordi in funzione antipartigiana, di inserimento nelle proprie file di ex fascisti, di protezione di spie, furti di materiale e addirittura di collaborazione nell'omicidio di partigiani garibaldini<ref name=agarossi85>{{cita|Aga Rossi e Carioti 2008|p. 85||harv=s}}.</ref>. |
Nella seconda metà del 1944 si moltiplicarono le pressioni slovene sui comandi osovani, contestualmente a una serie di accuse — sia da parte slovena che garibaldina — di intese della Osoppo con nazisti e fascisti con i quali sarebbero stati presi accordi in funzione antipartigiana, di inserimento nelle proprie file di ex fascisti, di protezione di spie, furti di materiale e addirittura di collaborazione nell'omicidio di partigiani garibaldini<ref name=agarossi85>{{cita|Aga Rossi e Carioti 2008|p. 85||harv=s}}.</ref>. |
Version vom 5. Juli 2012, 09:48 Uhr
Vorlage:Vaglio Vorlage:Nota disambigua Vorlage:Incidente Vorlage:Storia del Friuli L'eccidio di Porzûs consistette nell'uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani — in prevalenza gappisti — appartenenti al Partito Comunista Italiano. L'evento — uno dei più tragici e controversi della Resistenza italiana[1] — fu ed è tuttora fonte di numerose polemiche in ordine ai mandanti dell'eccidio e alle sue motivazioni. Le vicende legate a Porzûs hanno travalicato il loro contesto locale fin dagli anni in cui si svolsero, entrando a far parte di una più ampia discussione storiografica[2], giornalistica e politica[3] sulla natura e gli obiettivi immediati e prospettici del PCI in quegli anni[4][5][6], nonché sui suoi rapporti con i comunisti jugoslavi di Josip Broz Tito e con l'Unione Sovietica[7][8][9][10].
Contesto storico
I partigiani jugoslavi nella Slavia veneta
Vorlage:Vedi anche Nella storia della guerra di liberazione, la situazione nelle estreme propaggini nord-orientali dell'allora territorio italiano presenta delle caratteristiche del tutto peculiari. Abitata in parte da popolazioni slovene — ampiamente maggioritarie in varie zone — l'area comprende al proprio interno anche una regione denominata all'epoca "Slavia veneta" (oggi chiamata prevalentemente Slavia friulana, in sloveno Benečija) appartenuta per secoli alla Repubblica di Venezia e incorporata al Regno d'Italia fin dal 1866. Il 10 settembre 1943 — due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio italiano — fu inclusa formalmente nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico (in tedesco Operationszone Adriatisches Küstenland – OZAK), territorio sul quale la sovranità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) era puramente nominale, divenendo teatro di un'intensa repressione antipartigiana coordinata dal locale capo delle SS Odilo Globocnik[11].
In tale contesto geografico operarono contemporaneamente tre tipologie di formazioni partigiane: gli sloveni del IX Korpus, fortemente organizzati e inseriti all'interno dell'Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (in sloveno: Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije – NOV in POJ, o NOVJ), alcune Brigate Garibaldi, fra le quali in particolare quelle inserite nella Divisione Garibaldi Natisone, costituita da militanti comunisti, e le Brigate Osoppo Friuli, con componenti di ispirazione laica, azionista, liberale, socialista e cattolica.
Tutte le terre a est del fiume Isonzo — e comunque ovunque vivesse una componente etnica slovena, compresa quindi la Slavia veneta — furono rivendicate fin dalla fine del 1941 dalla nascente Jugoslavia di Tito[12], che le dichiarò ufficialmente annesse nel settembre del 1943[13]. All'interno di questi territori gli jugoslavi pretesero di avere il comando di tutte le operazioni militari sottoponendo al controllo del NOVJ le altre formazioni combattenti, in accordo con quanto aveva stabilito a seguito di precisa richiesta di Tito il segretario del Komintern Georgi Dimitrov in una lettera del 3 agosto 1942: questi aveva disposto per tutta la Venezia Giulia la dipendenza delle strutture del PCI al Partito Comunista Sloveno (PCS), e di tutte le formazioni combattenti nell'area al Fronte di Liberazione Sloveno[14].
L'obiettivo dei partigiani jugoslavi era triplice: liberare le zone occupate dagli eserciti dell'Asse, creare una serie di fatti compiuti per sostanziare le proprie rivendicazioni territoriali eliminando ancora nel corso delle operazioni belliche ogni opposizione — reale o potenziale — a tale disegno e procedere nel contempo a una rivoluzione sociale di tipo marxista[15]. Lo sloveno Edvard Kardelj, uno dei più importanti collaboratori di Tito, fu categorico in tal senso: in una lettera del 9 settembre 1944 a Vincenzo Bianco — prescelto personalmente da Togliatti come delegato del PCI presso il Fronte di Liberazione Sloveno — scrisse che all'interno delle formazioni partigiane italiane occorreva «fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti». Con riferimento alle zone di operazioni del IX Korpus, così proseguì: «Non possiamo lasciare su questi territori nemmeno un'unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici»[16], auspicando il passaggio dell'intera regione alla nuova Jugoslavia: «Gli italiani saranno incomparabilmente più favoriti nei loro diritti e nelle condizioni di progresso di quel che sarebbero in un'Italia rappresentata da Sforza»[17]. Rispetto alla Osoppo, rilevò che fosse «sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d'Azione»[18].
La posizione del PCI
Il 13 ottobre 1944, sulle pagine dell'organo ufficiale del PCI Alta Italia La nostra lotta, fu pubblicato un lungo articolo anonimo, nel quale si annunciava che «le forze popolari del Maresciallo Tito, appoggiate dal vittorioso Esercito Sovietico» avrebbero iniziato delle «operazioni di grande respiro» anche nella «Venezia Giulia (…) e [nei] territori dell'Italia Nord-Orientale». Salutando «quest'eventualità come una grande fortuna per il nostro paese», il giornale comunista invitava ad «accogliere i soldati di Tito non solo come liberatori allo stesso modo in cui sono accolti nell'Italia liberata i soldati Anglo-Americani, ma come dei fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta (…) e che ci apportano (…) la libertà». I soldati di Tito erano quindi da considerare «come i creatori di nuovi rapporti di convivenza e di fratellanza, non solo fra i popoli jugoslavi ma fra tutti i popoli»: «non solo i territori slavi da essi liberati, ma anche quelli italiani non saranno sottoposti al regime di armistizio, ma considerati come territori liberi, con un proprio governo rappresentato dagli organismi del movimento di liberazione, nei quali (…) ogni popolo (…) trov[erà] immediata e sicura espressione democratica». Grazie quindi all'opera congiunta dei partigiani italiani e jugoslavi «sarà tutto il popolo italiano che si sentirà legato a tutti i popoli jugoslavi e balcanici (…) [e] che si collegherà, attraverso i popoli balcanici, alla grande Unione Sovietica che è stata, e sempre sarà, faro di civiltà e di progresso per tutti i popoli (…)». «Il Partito Comunista Italiano» — concludeva quindi l'articolo — «impegna (…) tutti i comunisti (…) a combattere come i peggiori nemici della liberazione nazionale del nostro Paese e, quindi, come alleati dei tedeschi e dei fascisti quanti, con i soliti pretesti del "pericolo slavo" e del "pericolo comunista" lavorano a sabotare gli sforzi militari e politici dei nostri fratelli slavi (…)»[21].
Il 17 ottobre 1944 Palmiro Togliatti ebbe un incontro personale a Roma con Kardelj e con altri dirigenti comunisti jugoslavi[22][23][24]: secondo la minuta dell'incontro di mano dello stesso Kardelj, il leader comunista italiano «non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia, tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale che soddisfi gli italiani»[25]. Due giorni dopo, Togliatti inviò un'ampia lettera a Bianco, suddivisa in sei punti. Considerando «un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito», al fine non solo di battere tedeschi e fascisti, ma anche di creare nell'area «un regime democratico e progressivo», Togliatti ordinò alla Divisione Garibaldi Natisone di entrare nel NOVJ[26][27], e scrisse di proprio pugno il testo dell'ordine del giorno che i garibaldini avrebbero dovuto adottare[28]:
Togliatti non fece riferimento esplicitamente alle Brigate Osoppo Friuli, ma dispose che «(…) i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono in nome dell'imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli»[29].
In conseguenza di ciò, fin dagli ultimi mesi del 1944 la Divisione Garibaldi Natisone passò sotto il comando del IX Korpus, venendo inquadrata all'interno del NOVJ su tre Brigate: 156ª Brigata "Bruno Buozzi", 157ª Brigata "Guido Picelli" e 158ª Brigata "Antonio Gramsci". Invece di rimanere a combattere nel territorio nazionale, a fine anno la Divisione fu trasferita all'interno della Slovenia, ritornando in Italia solo alla fine del maggio 1945. I comandi della Osoppo invece rifiutarono, sostenendo di voler fare riferimento unicamente alle strutture direttive del Comitato di Liberazione Nazionale italiano. Questa situazione acuì una preesistente spaccatura all'interno delle forze partigiane italiane nella regione, che assunse sempre più le forme di un'aspra conflittualità ideologico-politica sui fini ultimi della lotta resistenziale e sulla sistemazione confinaria postbellica.
Tale acceso contrasto aveva conosciuto uno dei suoi momenti più importanti nell'agosto del 1944, con la destituzione dei comandi della Osoppo operata dal CLN udinese e dal Comitato Regionale Veneto e la loro sostituzione col seguente organigramma: al comando l'azionista Lucio Manzin "Abba", suo vice il comunista Lino Zocchi "Ninci", già comandante della brigata Garibaldi Friuli; commissario politico il comunista Mario Lizzero "Andrea", già commissario politico delle brigate Garibaldi Friuli; vicecommissario l'azionista Carlo Commessatti "Spartaco". Le formazioni della Osoppo avevano reagito con molta decisione, destituendo a loro volta i comandanti designati e rimettendo al loro posto i precedenti: Candido Grassi "Verdi" e il sacerdote Ascanio De Luca "Aurelio"[30].
Le pressioni slovene e garibaldine sugli osovani
Nella seconda metà del 1944 si moltiplicarono le pressioni slovene sui comandi osovani, contestualmente a una serie di accuse — sia da parte slovena che garibaldina — di intese della Osoppo con nazisti e fascisti con i quali sarebbero stati presi accordi in funzione antipartigiana, di inserimento nelle proprie file di ex fascisti, di protezione di spie, furti di materiale e addirittura di collaborazione nell'omicidio di partigiani garibaldini[31]. A tali accuse il comando della Osoppo aveva replicato con una lunga serie di relazioni scritte, nelle quali si illustrava il violento contrasto che contrapponeva i propri reparti ai garibaldini e agli sloveni del IX Korpus, e si denunciava una serie di incidenti a scapito degli osovani oltre alle forti pressioni che continuavano ad esser esercitate per il passaggio della Osoppo alle dipendenze dei comandi sloveni, sia da parte di questi ultimi che da parte del comando della Garibaldi Natisone, pressioni accompagnate da varie minacce[32]. Nello stesso periodo diversi esponenti comunisti triestini di sentimenti filoitaliani, che avevano espresso dubbi sulla futura appartenenza della città alla Jugoslavia, furono arrestati dai tedeschi, si suppone in seguito a delazioni[31].
Un membro della missione britannica del SOE (Special Operations Executive), Michael Trent (al secolo Issack Michael Gyori, nativo ungherese e residente in Cecoslovacchia[33]), che nello stesso periodo aveva tentato una mediazione con i comandi del IX Korpus, fu ucciso in circostanze non chiare[34].
Il 22 novembre 1944, quindici giorni dopo l'inserimento dei garibaldini nel IX Korpus sloveno, ebbe luogo l'ultimo incontro (della durata di cinque ore) fra i comandi della 1ª Divisione Garibaldi Natisone e della 1ª Brigata Osoppo — presente il comandante osovano Francesco De Gregori "Bolla" — nel corso della quale i garibaldini esercitarono la massima pressione possibile per convincere gli osovani a seguirli nella loro scelta. In particolare, Giovanni Padoan "Vanni" (commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone) dichiarò che tutti i partigiani operanti nell'Italia nord-orientale dovevano porsi alle dipendenze degli jugoslavi e che, secondo una dichiarazione ufficiale del PCI, chi non avesse appoggiato gli jugoslavi sarebbe stato da considerare nemico del popolo italiano. Aggiunse poi che chi, avesse preferito «appoggiare la politica democratica borghese dell'Inghilterra, anziche quella democratica popolare progressista della Jugoslavia di Tito», sarebbe stato considerato conservatore e reazionario e ritenuto di conseguenza responsabile di fronte al popolo: i garibaldini non avrebbero mai permesso l'instaurazione di un «regime democratico che facesse comodo all'Inghilterra» in Italia. Inoltre "Vanni" parlò delle vicende confinarie, affermando che l'intera Venezia Giulia era da considerarsi legittimamente appartenente alla Slovenia, le cui forze partigiane avrebbero proceduto in quel territorio alla mobilitazione generale: nel contempo, intimò agli osovani di non procedere ad alcun tipo di mobilitazione o di reclutamento, mettendo in dubbio la legittimità del CLN. Il colloquio ebbe un andamento burrascoso e si concluse con una rottura completa[35].
A dicembre gli sloveni esercitarono pressioni sulla Garibaldi Natisone perché agisse contro il comando osovano di Porzûs[31][36]: infatti il 6 e 12 dicembre 1944, Mario Fantini "Sasso" e Giovanni Padoan "Vanni", come comando della Divisione Garibaldi Natisone, inviarono due lettere di risposta al superiore comando del IX Korpus[37]. Nella prima scrissero che:
Nella lettera successiva tornarono sul tema:
Il 1º gennaio 1945 si tenne un incontro in frazione Uccea di Resia fra Romano Zoffo "Livio" — già comandante della II Brigata Osoppo, in quell'epoca impegnato nell'organizzazione della VI Brigata Osoppo e in particolare del Battaglione Resia — e il commissario politico sloveno del Battaglione Rezianska, accompagnato da due ufficiali. In tale occasione gli sloveni affermarono che:
Vorlage:Quote Poco più di un mese dopo avvenne l'eccidio.
L'eccidio
L'attacco alle malghe
Il 7 febbraio 1945 un gruppo di circa cento unità partigiane comuniste appartenenti ai battaglioni GAP "Ardito" (al comando di Urbino Sfiligoi "Bino"), "Giotto" (al comando di Lorenzo Deotto "Lilly"), "Amor" (al comando di Gustavo Bet "Gastone") e "Tremenda" (al comando di Giorgio Iulita — o Julita — "Jolly")[38][39] e capeggiati da Mario Toffanin "Giacca" raggiunse il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, situato presso alcune malghe in località Topli Uork (in seguito la zona divenne più nota con il toponimo di Porzûs, dal nome di una vicina frazione), nel comune di Faedis nel Friuli orientale. L'ordine ai gappisti era pervenuto per iscritto dal vicesegretario della federazione del PCI di Udine — Alfio Tambosso "Ultra" — nei seguenti termini:
In seguito alcuni gappisti testimoniarono di non aver compreso il motivo della missione fino agli istanti precedenti l'eccidio.
La Brigata Osoppo ospitava Elda Turchetti, una giovane donna che Radio Londra aveva indicato come spia[40], dopo che alcuni informatori britannici avevano avuto segnalazioni su una sua presunta amicizia con soldati tedeschi. Giunta a conoscenza di tali voci sul suo conto, la stessa Turchetti si era presentata spontaneamente a un partigiano gappista suo conoscente di nome Attilio Tracogna "Paura": questi l'aveva condotta da Adriano Cemotto "Ciclone" (gerarchicamente dipendente proprio da Toffanin), che successivamente l'aveva consegnata all'osovano Agostino Benetti "Gustavo", dipendente dal responsabile dell'Ufficio Informazioni della Osoppo Leonardo Bonitti "Tullio". La Turchetti venne in seguito affidata all'osovano Ivo Feruglio "Marinaio", che infine la portò a Topli Uork[41][42]. Lì, dopo alcuni mesi di custodia, era stata ritenuta innocente al termine di un processo tenutosi il 1º febbraio 1945[43]. Dal ruolino della Osoppo tenuto da "Bolla" risulta che la donna era stata arruolata a tutti gli effetti nella 1ª Brigata Osoppo, col nome di "Livia"[44][45]. La protezione data a Elda Turchetti fu in seguito indicata — nelle varie e spesso contraddittorie ricostruzioni di Toffanin — come il motivo scatenante dell'azione dei partigiani garibaldini[46]. Successivamente all'eccidio, Toffanin accusò inoltre la Osoppo di aver contrastato la politica di collaborazione con i partigiani jugoslavi, di non aver redistribuito agli altri gruppi partigiani parte delle armi che fornite alla stessa Osoppo dagli angloamericani e di aver collaborato con elementi della Xª Flottiglia MAS e del Reggimento alpini "Tagliamento", appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana[47].
La ricostruzione dettagliata dello svolgimento dell'operazione gappista fu fornita nel corso dei processi e poi ripresa e approfondita in alcune pubblicazioni[48]. La colonna raggiunse l'abitato di Porzûs e poi si divise in gruppi, che raggiunsero le malghe di Topli Uork in momenti diversi. Per superare i posti di guardia osovani senza creare scompiglio, i gappisti affermarono d'essere in parte dei partigiani sbandati a seguito di un rastrellamento, in parte civili fuggiti da un treno che li portava in Germania, attaccato dall'aviazione alleata. Un gruppo di garibaldini si spacciò per osovano.
Il messaggero del gruppo agli ordini di Toffanin fu Fortunato Pagnutti "Dinamite", un partigiano del quale sia i garibaldini che gli osovani si fidavano, avendo già svolto incarico di staffetta fra i due reparti. Un osovano di guardia fu mandato a Topli Uork a informare Francesco De Gregori "Bolla"[49], comandante del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, il quale inviò sul luogo il delegato politico[50] azionista della VIª Brigata Osoppo "Friuli" Gastone Valente "Enea", di passaggio alle malghe. Questi ordinò di separare i presunti osovani dai garibaldini, volendo inviare i secondi al vicino reparto garibaldino di Canebola (una frazione di Faedis). Durante l'operazione si palesò "Giacca", che fece arrestare tutti gli osovani presenti e attese l'arrivo di "Bolla" — in precedenza chiamato da "Enea" — che si trovava in una baita a una certa distanza. Al suo arrivo "Bolla" fu immediatamente arrestato e subito dopo "Giacca" fece rastrellare la zona, catturando un altro gruppo di osovani in una malga vicina.
Nel contempo un reparto al comando di Vittorio Juri "Marco" si occupò di raccogliere tutto il materiale presente a Topli Uork: in tale frangente fu ucciso — essendo stato ritenuto un osovano — il giovane partigiano garibaldino Giovanni Comin "Tigre" (ribattezzato in seguito "Gruaro" dagli osovani). Questi era fuggito da un treno che lo stava conducendo in un lager tedesco ed era stato indirizzato a Topli Uork dal parroco di Reana del Rojale[51], poiché si trattava del covo partigiano più vicino[52]. Comin si stava avvicinando alle malghe dalla parte opposta alla strada percorsa dai gappisti, assieme al portavivande e staffetta della Osoppo Giovanni Cussig "Afro", che fu rapinato dell'orologio da polso da un garibaldino, ma presto rilasciato dietro assicurazione — data dall'osovano Gaetano Valente "Cassino" — che non si trattava di un partigiano[53][54].
Oltre a Comin furono subito uccisi De Gregori, Valente e la Turchetti. Dalle risultanze processuali risultò che De Gregori fu ucciso all'arma bianca, probabilmente per evitare il rumore delle armi da fuoco[55]. Aldo Bricco "Centina", futuro comandante designato della formazione a Topli Uork per il passaggio delle consegne con De Gregori e giunto in vista di "Giacca" e i suoi assieme a quest'ultimo, riuscì rocambolescamente a fuggire: apertosi un varco a forza fra i gappisti, si lanciò di corsa dal costone del monte innevato; ferito da sei colpi di arma da fuoco fu ritenuto morto, ma riuscì a trascinarsi fino al vicino paese di Robedischis, dove si fece medicare da alcuni partigiani sloveni, avendo loro raccontato d'esser stato ferito in uno scontro con i fascisti. Il giorno successivo fu arrestato dagli sloveni insospettitisi, ma fu liberato da un amico grazie a un falso salvacondotto. In seguito riuscì di nascosto a raggiungere le file osovane mentre i partigiani del IX Korpus intraprendevano una vana caccia all'uomo per riprenderlo[56][57].
Le uccisioni successive
Tredici altri partigiani, a seguito di processi sommari, furono imprigionati e fucilati nei giorni successivi nelle località limitrofe di Bosco Romagno, Ronchi di Spessa, Restocina e Rocca Bernarda (Prepotto): tra questi Guido Pasolini "Ermes", fratello di Pier Paolo, giunto a Topli Uork il 6 febbraio assieme a un gruppetto di osovani capitanato da "Centina". Condotto assieme a "Cariddi", "Guidone" e "Toni" presso il luogo della sua esecuzione, Pasolini riuscì inizialmente a sfuggire all'esecuzione mentre scavava la sua propria fossa. Ferito da una fucilata, raggiunse il paese di Sant'Andrat del Judro dove si fece medicare dal locale farmacista e poi proseguì a piedi per Dolegnano (San Giovanni al Natisone), rifugiandosi a casa di una conoscente: qui fu nuovamente arrestato dal partigiano Mario Tulissi, che lo riportò ai citati gappisti "Bino" e "Lilly". Trascinato una seconda volta sul luogo dell'esecuzione, Guido Pasolini fu ucciso con un colpo di pistola[58].
Furono risparmiati due osovani che passarono nei GAP, Leo Patussi "Tin" e Gaetano Valente "Cassino".
Questi ultimi, assieme a Bricco, dopo la guerra furono tra i principali accusatori di Toffanin e compagni nei vari processi che si svolsero fra Udine, Venezia, Brescia, Lucca e Firenze.
Altri quattro osovani — Enzo d'Orlandi "Roberto", Aroldo Bollina "Gianni", Antonio di Memmo "Pescara" e un quarto del quale si conosce solo il nome di battaglia, "Leo" — erano giunti alle malghe assieme a "Ermes" con il gruppo di "Centina" il giorno prima dell'attacco: si salvarono in quanto, alloggiati in una malga distante qualche centinaio di metri, erano fuggiti per tempo avendo percepito il pericolo[59].
Allo stesso modo si salvarono Giulio Emerati, Virgilio Cois, Giovanni Turco ed Enrico Smerrecar, che per portare armi o viveri stavano risalendo verso le malghe e furono fermati dai garibaldini ma rilasciati non essendo ritenuti osovani: con Emerati era il giovane studente in medicina Franco Celledoni "Atteone", che invece fu catturato e in seguito ucciso[60][61].
Altri osovani uccisi
Un evento considerato «il prologo dei tragici fatti di Porzûs»[62] ebbe luogo il 16 gennaio 1945, quando altri tre osovani — Antonio Turlon "Make" (in altre fonti "Macche" o "Macché"), Annunziato Rizzo "Rinato" e Mario Gaudino "Vandalo" — furono sequestrati da una pattuglia del IX Korpus sloveno in località Platischis nel comune di Taipana (UD): dopo le infruttuose richieste di rilascio da parte di "Bolla", i tre furono fucilati il 12 aprile 1945 nella località di Rucchin di Drenchia[63][64]: il nome di battaglia di tutti e tre appare nella lapide in memoria dei trucidati murata a Topli Uork, mentre il nome dei soli Turlon e Rizzo appare nel cippo Ai Martiri della Osoppo di Bosco Romagno (Cividale)[65]. Tra i partigiani sfuggiti all'eccidio figura Erasmo Sparacino "Flavio", che però fu catturato in seguito dai tedeschi e fucilato a Cividale il 12 febbraio 1945[66][67]: il suo nome appare comunque in entrambi i memoriali di cui sopra.
Le vittime
Quello che segue è l'elenco completo degli osovani uccisi dai gappisti, comprendendo fra questi anche Elda Turchetti ed Egidio Vazzas (o Vazzaz), il cui corpo non fu mai ritrovato[68].
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Le prime notizie dell'eccidio e le reazioni
Nei giorni immediatamente seguenti all'eccidio, scoperto da alcuni abitanti del luogo, le notizie si accavallarono confuse: la direzione della federazione del PCI di Udine fece circolare la voce secondo la quale l'attacco fosse opera di forze tedesche o fasciste[70]. Qualche giorno dopo la Gioventù Antifascista Italiana e Slovena, un'organizzazione politica che propugnava l'annessione della zona alla Jugoslavia, organizzò a Circhina una conferenza cui parteciparono alcuni garibaldini della Natisone, nel corso della quale fu annunciata la soppressione del comando osovano senza peraltro specificare a opera di chi: vi furono applausi e grida di entusiasmo, giacché fra i garibaldini era opinione diffusa che gli osovani fossero dei reazionari in combutta con i fascisti[71].
La relazione di Toffanin, Plaino e Juri
Il 10 febbraio Mario Toffanin (che in tale occasione si firmò col suo secondo nome di guerra "Marino") e i suoi sottoposti, Aldo Plaino "Valerio" e il citato Vittorio Juri "Marco", stilarono una relazione indirizzata alla federazione comunista di Udine e al comando del IX Korpus sloveno tramite Giovanni Padoan "Vanni" e Mario Blason "Bruno" (vicecommissario politico della Garibaldi Natisone), in cui sostennero che l'esecuzione aveva avuto «pieno consenso della Federazione del partito», accusando i partigiani della Osoppo di essere dei traditori venduti a fascisti e tedeschi, aggiungendo il particolare secondo il quale "Bolla", in punto di morte, avrebbe inneggiato al «fascismo internazionale». I tre comandanti gappisti scrissero degli osovani che «esaminati attentamente uno a uno, abbiamo notato che essi non erano altro che figli di papà, delicati attendisti che se la passavano comodamente in montagna». Nella parte finale della relazione "Marino", "Valerio" e "Marco" invitarono i «comandi superiori» a «estirpare del tutto queste formazioni reazionarie». Alla relazione i tre allegarono un documento indicante ulteriori obiettivi da tenere in considerazione: fra di essi Candido Grassi "Verdi" (definito «pericolosissimo») e don Aldo Moretti "Lino"[72]. Nel corso del successivo processo le difese di alcuni imputati affermarono che tale relazione venne stilata in data successiva, al fine di far apparire un'iniziativa autonoma di "Giacca", "Valerio" e "Marco" quella che invece era stata l'esecuzione di precisi ordini superiori[73]. In anni più recenti, "Vanni" confermò l'autenticità del documento, ma affermò di non averlo mai visto all'epoca[74]. La ricercatrice storica Alessandra Kersevan - considerando che la relazione venne procurata grazie ad un furto ad una sede dell'ANPI da parte di alcuni osovani - insinuò invece che potesse essere stata prodotta da questi ultimi[75].
Le inchieste partigiane
Lo stesso giorno in cui Toffanin inviò la sua relazione, il comando della Osoppo affidò l'incarico di compiere una prima indagine ad Agostino Benetti "Gustavo"[76], che in pochi giorni appuntò i propri sospetti sui garibaldini. Informati i superiori, questi interessarono il CLN provinciale, che in una riunione del 21 febbraio — in assenza del rappresentante comunista — incaricò un rappresentante del Partito d'Azione e uno della Democrazia Cristiana di svolgere ulteriori accertamenti. Fu avvisato il Comitato Regionale Veneto (CRV), il quale avocò a sé l'inchiesta: il 5 marzo successivo il CLN provinciale sospese quindi la propria indagine. Il CRV istituì una nuova commissione, formata da un rappresentante del Partito d'Azione (Luciano Commessatti "Gigi"), uno della DC e un terzo del PCI. Il 12 marzo Commessatti s'incontrò con i garibaldini Ostelio Modesti "Franco", segretario della federazione del PCI di Udine, e il citato "Ultra", vicesegretario: quest'ultimo affermò che l'azione delle malghe di Topli Uork era stata «un colpo di testa di "Giacca"»[77]. Organizzato un successivo incontro con i capi garibaldini aperto anche ai comandanti osovani, Commessatti si poté incontrare solo con i primi, giacché i dirigenti osovani erano stati tutti arrestati dai tedeschi nel corso di una riunione indetta per organizzare l'incontro con i garibaldini. A seguito di quell'arresto di massa, i partigiani sloveni diffusero un volantino nella bassa friulana, in cui si legge che
L'incontro fra la commissione e i capi garibaldini Lino Zocchi "Ninci" (comandante del gruppo Divisioni Garibaldi del Friuli), Mario Lizzero "Andrea" (commissario politico delle brigate Garibaldi in Friuli), Modesti e Valerio Stella "Ferruccio" (comandante della Brigata Garibaldi Friuli) si svolse in un clima molto teso. La tesi nuovamente propugnata dai garibaldini a Commessatti fu quella del colpo di testa di Toffanin, ma i capi comunisti impedirono alla commissione di interrogarlo, rassicurando che avrebbero provveduto loro alla sua «giusta punizione»[77]. La commissione si trovò quindi a un punto morto: mancando la relazione ufficiale della Osoppo a causa dell'arresto dei suoi capi, i garibaldini si rifiutarono di mettere per iscritto le loro informazioni e, a quel punto, l'unico documento in mano ai commissari fu una relazione degli osovani Alfredo Berzanti "Paolo" (in seguito deputato democristiano) ed Eusebio Palumbo "Olmo": il membro comunista della commissione si rifiutò però di accettarla perché «di parte»[78].
Il 31 marzo 1945 il CLN invitò i comandi osovani e garibaldini a nominare un'altra commissione paritetica d'inchiesta, nella speranza non solo di chiarire l'episodio di Topli Uork, ma anche di conoscere la sorte — ancora ignota — degli altri osovani arrestati da "Giacca" e i suoi uomini. Il 3 aprile successivo si ritrovarono "Verdi" e Giovanni Battista Carron "Vico" per la Osoppo insieme a Ostelio Modesti per i garibaldini; quest'ultimo cambiò radicalmente la versione precedentemente sostenuta da Tambosso, affermando che l'attacco alle malghe era stata opera di fascisti camuffati da partigiani, così com'era stato annunciato dalla radio, che tuttavia aveva in quei giorni fatto riferimento a un episodio avvenuto nella zona del Collio, distante da Porzûs[78]. Modesti passò all'attacco, accusando gli osovani di non essersi adoperati con le popolazioni friulane per propagandare la figura di Tito, del quale si aspettava l'entrata da liberatore a Udine[79]. Alla fine della discussione si decise di nominare l'ennesima commissione formata da un osovano, un garibaldino e un rappresentante del CLN come presidente. Per tali incarichi furono designati rispettivamente il citato Berzanti, Valeriano Rossitti "Pietro" e il liberale Manlio Gardi "Bruto". Per vari motivi, tuttavia, quest'ultima commissione non s'insediò mai, e mentre gli osovani chiesero a varie riprese di andare a fondo della questione, i garibaldini misero in campo una serie di atteggiamenti dilatori. La successiva insurrezione di aprile/maggio 1945 fece passare in secondo piano l'indagine.
Durante queste vicende, tuttavia, all'interno delle forze partigiane comuniste sorse una reazione all'operato del gruppo di Toffanin. Mario Lizzero, venuto a sapere dell'eccidio, propose la condanna a morte per Toffanin e i suoi uomini, ma questi in un primo tempo non ricevettero alcuna sanzione, venendo destituiti dalle loro posizioni di comando nei GAP ad aprile del 1945, oltre due mesi dopo l'attacco[80][81]. Secondo la ricostruzione di "Vanni", Lizzero sarebbe stato invece il grande artefice della strategia difensiva del partito comunista, tendente a colpevolizzare il solo Toffanin per impedire che si arrivassero a scoprire i veri mandanti dell'eccidio, e cioè il IX Korpus sloveno che aveva ordinato l'operazione alla federazione del PCI di Udine: fatto arrestare Toffanin il 20 febbraio 1945 e condannatolo alla fucilazione, Lizzero a seguito di un incontro a quattr'occhi inaspettatamente lo liberò, rifiutandosi poi di rivelare il contenuto del loro colloquio. Contestualmente — riferisce "Vanni" — Lizzero sviò le indagini subito ordinate dal Comitato Regionale Veneto, impedendo a Luciano Commessatti "Gigi" di interrogare Toffanin, tanto che, tornato a Padova, "Gigi" denunciò la non collaborazione di Lizzero e di "Ninci"[82]. I dirigenti della federazione del PCI di Udine Modesti e Tambosso sostennero, sia all'epoca che in seguito, che la responsabilità dell'azione fosse da imputarsi interamente a Toffanin, che non avrebbe interpretato correttamente gli ordini.
I processi
Subito dopo la Liberazione (25 aprile 1945) i primi a denunciare data e dinamica dell'eccidio furono i citati Grassi (all'epoca socialista, in seguito deputato socialdemocratico) e Berzanti. Questi accusarono i garibaldini di aver ucciso i propri compagni di lotta «sol perché si erano resi colpevoli di non aver voluto combattere i tedeschi sotto la bandiera jugoslava»[83]. Il 23 giugno 1945, dopo la scoperta a opera dei parenti dei corpi dei trucidati di Bosco Romagno[84], Grassi e Berzanti presentarono una denuncia al Procuratore del Regno di Udine, a nome del Comando del Gruppo Divisioni "Osoppo Friuli"[85][86]. Nei giorni precedenti i due avevano ripetutamente chiesto a Zocchi e Lizzero di associarsi nella denuncia, ottenendo tuttavia sempre un rifiuto[87]. Passando i mesi senza novità alcuna ed esasperati per l'attesa, i partigiani della Osoppo pubblicarono nel 1947 un numero unico stampato a Udine, riproducendo tutti i documenti accusatori «contro tutte le omertà che vietano il libero corso della giustizia»[88].
Il processo di primo grado
Vorlage:Doppia immagine Il processo fu istituito in prima battuta dalla procura di Udine, che tuttavia poco dopo trasmise gli incartamenti al tribunale militare di Verona. Da questo le carte passarono alla procura di Venezia, che concluse il 13 dicembre 1948 l'istruttoria penale con rinvio a giudizio di 45 imputati davanti alla corte d'assise di Udine per rispondere dei delitti di omicidio aggravato continuato e saccheggio[89]. Per legittima suspicione la Corte di Cassazione trasferì il procedimento a Brescia, dove il dibattimento ebbe inizio il 9 gennaio 1950. Il 20 gennaio la corte d'assise di Brescia, con ordinanza propria, rinviò la causa a nuovo ruolo per permettere al pubblico ministero di contestare altri reati agli imputati. Il 2 maggio 1950 la madre di Franco Celledoni, una vittima osovana dell'eccidio, denunciò al procuratore della Repubblica di Udine i citati Tambosso, Stella e Padoan quali presunti mandanti della strage, nonché Enzo Iurich "Ape" quale esecutore materiale dell'uccisione di Angelo Augelli "Massimo"[90]. L'istruttoria nascente da tale nuova denuncia fu unificata con la precedente, e l'8 febbraio 1951 il giudice istruttore di Venezia ordinò un nuovo rinvio a giudizio avanti la corte d'assise di Brescia degli imputati delle due istruttorie, per rispondere dei reati precedentemente contestati, cui si aggiunsero quelli di sequestro di persona, plagio e attentato all'integrità territoriale dello Stato. Il processo fu trasferito una seconda volta per legittima suspicione avanti la corte d'assise di Lucca, dove nel settembre 1951 ricominciò la fase dibattimentale[91][92]. Il 26 settembre 1951 Pier Paolo Pasolini testimoniò in aula in quanto parte lesa[93].
Alcuni dei maggiori imputati erano da tempo fuggiti in Jugoslavia o in Cecoslovacchia: su 51 di essi risultavano latitanti Mario Toffanin "Giacca", Felice Angelini "Fuga", Bruno Grion "Falchetto", Vittorio Iuri o Juri "Marco", Leonida Mazzaroli "Silvestro", Fortunato Pagnutti "Dinamite", Bruno Pizzo "Cunine", Antonio Mondini "Boris" e Adriano Cernotto "Ciclone"[94], così come Aldo Plaino risultava residente nella Zona B del Territorio Libero di Trieste ad amministrazione militare jugoslava[95], mentre Giovanni Padoan viveva a Praga lavorando per le trasmissioni in lingua italiana della radio nazionale, frequentanto nel contempo la scuola del PCI di Dobřichovice assieme a vari altri partigiani italiani ivi rifugiati in quanto accusati di atti di violenza nel dopoguerra[96].
Il 6 aprile 1952 vi fu la prima sentenza: Mario Toffanin, Vittorio Juri e Alfio Tambosso furono condannati all'ergastolo; Aldo Plaino e Ostelio Modesti a trent'anni di reclusione ciascuno. Nel complesso, furono irrogati tre ergastoli e 659 anni di reclusione a quarantuno imputati[97][98], ridotti a 289 per l'applicazione di una serie di condoni previsti da norme entrate in vigore nel frattempo. Per effetto di ciò Toffanin e Juri si videro ridotta la pena a trent'anni, Tambosso a ventinove, Modesti a nove e Plaino a dieci. Dieci imputati furono assolti, fra di essi Lino Zocchi "Ninci", Mario Fantini "Sasso" (già comandante della Divisione Garibaldi Natisone), Valerio Stella "Ferruccio" (già comandante della Brigata Garibaldi Friuli) e Giovanni Padoan "Vanni". Tutti gli imputati furono assolti dal reato di tradimento per attentato all'integrità dello Stato[99]. Alla lettura della sentenza Modesti si rivolse ai giudici con queste parole: «Signori, la vostra sentenza ha avuto il potere di serrare dinanzi a noi le sbarre di questa gabbia, ma noi siamo più forti di voi!», al che gli altri imputati gridarono «Viva la Resistenza!»[99]. L'8 aprile l'Unità pubblicò in prima pagina un telegramma inviato da Togliatti a Modesti: «Giunga a te e a tutti i compagni la solidarietà affettuosa del partito, che dalle ingiuste condanne è uscito più grande e più forte per il consenso dei cittadini animati da spirito di democrazia e di amor di patria»[100].
Il processo d'appello

Il processo di secondo grado si svolse presso la corte d'assise d'appello di Firenze, cui si erano appellate le parti per motivi opposti: la pubblica accusa per un inasprimento generale delle pene e per il riconoscimento del reato di tradimento, le difese per chiedere l'assoluzione piena.
La sentenza del 30 aprile 1954 decretò che «la strage (…) fu un atto tendente a porre una parte del territorio italiano sotto la sovranità jugoslava», ma assolse gli imputati per il reato di tradimento in quanto «l'azione degli imputati non è stata determinante perché l'occupazione jugoslava sarebbe avvenuta ugualmente»[101]. Furono confermate le pene precedentemente inflitte dalla corte d'assise di Lucca per i reati principali e inasprite le pene per i reati di sequestro di persona e saccheggio. Giovanni Padoan, in assise assolto per insufficienza di prove, fu condannato a trent'anni di reclusione, ridotti a due per effetto delle varie amnistie e condoni. A causa di tali provvedimenti legislativi, nessuno dei condannati presenti al processo finì detenuto, mentre una parte di essi continuò la latitanza all'estero[102][103]. Tre giorni più tardi, sulla seconda pagina dell'Unità, apparve un articolo dell'inviato speciale Ferdinando Mautino "Carlino", già capo di stato maggiore delle Divisioni Garibaldi del Friuli e fra i fautori della subordinazione dei garibaldini al IX Korpus sloveno[104], che stigmatizzò «la speculazione democristiana sui fatti di Porzûs, fra le tante porcherie commesse da questi nostri dirigenti e nemmeno fra le più rimarchevoli»[105].
Il procuratore generale di Firenze impugnò la sentenza presso la Cassazione, chiedendo l'annullamento dell'assoluzione per il reato di tradimento per aver attentato all'integrità dello Stato nei confronti di Juri, Modesti, Padoan, Paino, Tambosso, Toffanin, Zocchi e Fantini. Nei confronti degli ultimi due fu chiesto anche l'annullamento della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove per il reato di omicidio, sequestro di persona e rapina[101]. Analogamente impugnarono la sentenza gli imputati per chiedere nuovamente l'assoluzione.
- Quadro riassuntivo della sentenza
Di seguito il quadro riassuntivo delle condanne e delle assoluzioni irrogate dalla corte d'assise d'appello di Firenze, con propria sentenza del 30 aprile 1954[106] per i capi di imputazione di:
- omicidio aggravato e continuato;
- rapina aggravata;
- sequestro di persona;
- tradimento (limitatamente a Toffanin, Iuri, Palino, Modesti, Tambosso, Zocchi, Padoan e Fantin)[107].
La corte d'assise d'appello assolse gli imputati dal reato di tradimento, con la formula «perché il fatto non costituisce reato»: cassata l'assoluzione dalla Suprema Corte di Cassazione, il nuovo processo per lo stesso reato non fu celebrato per sopraggiunta amnistia.
- Imputati condannati
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- Imputati assolti per insufficienza di prove
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- Imputati assolti per non aver commesso i fatti in ordine ad alcuni omicidi e per insufficienza di prove per altri omicidi e per le restanti accuse
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- Imputati assolti per non aver commesso i fatti
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Il processo in Cassazione
Il 18 giugno 1957 iniziò la discussione dell'impugnazione della sentenza di secondo grado presso la Corte di Cassazione: il Procuratore Generale, in linea con le richieste della procura di Firenze, chiese il rigetto del ricorso degli imputati e un nuovo processo per il reato di tradimento[110]. Il giorno seguente la Corte accolse in toto le tesi dell'accusa, confermando le sentenze, che divennero così definitive, per gli omicidi e i reati minori connessi, ma ordinando al contempo l'istruzione di un nuovo processo presso la corte d'assise d'appello di Perugia per il solo reato di tradimento per attentato contro l'integrità dello Stato per tutti gli imputati più importanti, nonché per il reato di omicidio, rapina e sequestro di persona per Zocchi e Fantini[111].
Il nuovo processo a Perugia
Fra la sentenza della Cassazione e l'apertura del procedimento a Perugia fu emanato l'11 luglio 1959 un decreto presidenziale di amnistia[112] che coprì anche i reati di natura politica, intendendo con ciò anche ogni delitto comune determinato — in tutto o in parte — da motivi politici[112]. Pervenuti quindi gli atti nel capoluogo umbro, il procuratore generale di Perugia chiuse la fase istruttoria rilevando l'estinzione del reato per sopraggiunta amnistia per tutti gli imputati (sentenza dell'11 marzo 1960). Pur avendone titolo ai sensi dell'art. 14 del citato decreto[112], nessun imputato esercitò il diritto alla rinuncia al beneficio al fine di farsi giudicare[113]. Questo fu l'ultimo della lunga catena di atti processuali relativi alle vicende legate all'eccidio di Porzûs.
La sorte dei condannati e la medaglia d'oro a De Gregori
Nessuno dei condannati scontò pene in carcere salvo il periodo della detenzione in attesa della conclusione del processo, che in alcuni casi si protrasse per qualche anno. Mario Toffanin, contumace, non fece ritorno in Italia dopo l'amnistia del 1973, dovendo ancora scontare trent'anni di pena per altri reati[114] commessi fra il 1940 e il 1946 non coperti da amnistia; non fece ritorno neppure nel luglio 1978 nonostante la grazia concessagli dal presidente Sandro Pertini da poco insediatosi al Quirinale[114]. Toffanin morì a Sesana, in Slovenia, il 22 gennaio 1999. Negli anni successivi alla fuga si dichiarò sempre certo del tradimento della Osoppo: ribadì più volte la correttezza delle sue azioni e continuò ad accusare gli uomini della Osoppo, tra le altre cose, di aver inglobato al proprio interno molti uomini appartenenti a gruppi fascisti, di aver collaborato attivamente con gli uomini della RSI e di aver spesso trattenuto le forniture di armi e attrezzature inglesi che secondo gli accordi spettavano ai garibaldini[115].
A Francesco De Gregori fu riconosciuta, nel 1945, la medaglia d'oro al valor militare alla memoria, con una motivazione contenente la seguente frase: «Cadeva vittima della tragica situazione creata dal fascismo ed alimentata dall'oppressore tedesco in quel martoriato lembo d'Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza»[116] che, non facendo alcun riferimento all'eccidio e ai suoi esecutori, fu molti anni dopo considerata «ineffabile», «reticente»[117] o indice di «contorsionismo»[118]. Il sito ufficiale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia attribuisce la morte di De Gregori a «uno scontro tra partigiani»[119].
I mandanti e le motivazioni dell'eccidio
Nel corso dei decenni varie ipotesi (talora radicalmente divergenti tra loro e che propongono letture totalmente antitetiche degli eventi) sono state avanzate sui mandanti dell'eccidio e sulle sue motivazioni, spesso in corrispondenza con la scoperta di nuovi documenti o con l'apertura di nuovi filoni giudiziari. Alcuni fra gli stessi protagonisti dei fatti, col passare del tempo, hanno modificato anche in maniera notevole le proprie precedenti dichiarazioni, rendendo il quadro ancor più difficile da interpretare.
La versione di Toffanin
Mario Toffanin "Giacca", principale responsabile materiale dell'eccidio di Porzûs, rilasciò una serie di interviste negli anni novanta, nel corso delle quali ribadì sempre la stessa versione: la Osoppo era responsabile di aver intrattenuto rapporti con la Decima Mas e con i tedeschi e stava organizzando l'eliminazione del comando GAP; l'organizzazione della missione alle malghe di Topli Uork era stata solo sua; l'eccidio fu un legittimo atto di guerra, giustificato dal tradimento degli osovani e causato dall'impeto rabbioso derivante dall'aver visto la spia Elda Turchetti presso il comando partigiano: un'azione che Toffanin avrebbe sempre rifatto tale e quale, senza alcun ripensamento; il processo fu una manovra, ordita dai democristiani[120][121][74][122].
In tali interviste Toffanin cambiò completamente la propria versione rispetto a quanto aveva dichiarato nella relazione scritta a ridosso del fatto: le strutture del PCI non risultavano più coinvolte in nessuna fase dell'evento e si disconosceva l'esistenza di un qualsiasi ordine superiore relativamente alla missione e ai suoi scopi. Interrogato sulla discrepanza fra le due versioni, affermò che la relazione del 1945 era in realtà un falso[120], ma nel 1975 lo stesso Toffanin aveva rilasciato la seguente dichiarazione autografa per un libro di Marco Cesselli, ricercatore dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione:
La tesi dei mandanti sloveni
L'ipotesi che nella storiografia italiana ha via via preso più vigore, anche sulla scorta delle risultanze processuali, le quali hanno espressamente indicato come il passaggio dei garibaldini della Natisone alle dipendenze del IX Korpus, la propaganda filojugoslava svolta nei confronti di formazioni partigiane e l'eccidio di Porzûs facessero parte di un medesimo disegno avente come scopo ultimo la cessione di parti dello Stato italiano alla Jugoslavia[107], e infine dell'apertura di una serie di archivi prima inaccessibili, attribuisce la motivazione dell'eccidio a una sorta di "pulizia preventiva" contro gli oppositori, reali o potenziali, del regime comunista jugoslavo che secondo i disegni espansionistici di Tito avrebbe dovuto annettere anche i territori friulani e giuliani prossimi all'attuale confine, comprendenti il Goriziano, la Slavia veneta e la striscia costiera che da Trieste va fino a Monfalcone. La stessa dinamica avrebbe portato anche ai massacri delle foibe, nelle quali furono eliminati — fra l'altro — centinaia di italiani considerati contrari all'annessione jugoslava.
La tesi secondo la quale l'eccidio di Porzûs sia imputabile agli sloveni trovò alcune indirette conferme documentali: esso fu anche preannunciato in un rapporto al Foreign Office pervenuto pochi giorni prima della strage. In tale rapporto un ufficiale di collegamento britannico al seguito dei partigiani sloveni operanti nell'Italia nordorientale aveva reso noto che l'unità cui era aggregato aveva catturato alcuni partigiani della Osoppo, e che alle sue rimostranze il comandante sloveno aveva risposto di avere agito in base a ordini superiori. L'autore del rapporto aveva espresso quindi l'opinione che gli sloveni avevano l'intenzione di attaccare il comando generale delle brigate Osoppo[123]. Lo stesso "Bolla", nel suo rapporto del 17 gennaio 1945 che denunciò il rapimento di "Make", "Rinato" e "Vandalo" da parte del IX Korpus, affermò che «certamente, nei prossimi giorni tali atti di inqualificabile violenza (...) si ripeterà (sic) a danno dei nostri piccoli distaccamenti di Prossenicco e Canebola, fino a quando si ripeterà, come logica conclusione di una linea di condotta che ormai appare fin troppo chiara, contro questo Comando stesso»[124].
Fra gli autori che hanno in vario modo contribuito a questa ricostruzione dei fatti o l'hanno fatta propria almeno in senso generale, sono da ricordare Marina Cattaruzza[125], Tommaso Piffer, Elena Aga Rossi[126], Raoul Pupo[127], Sergio Gervasutti[128] e altri.
Il 23 agosto 2001 l'ex commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone Giovanni Padoan "Vanni", condannato sia in appello che in Cassazione, confermò in pieno tale ricostruzione durante un tentativo di riconciliazione fra garibaldini e osovani che vide il suo abbraccio alle malghe di Topli Uork col sacerdote ed ex partigiano osovano don Redento Bello "Candido"[129]. "Vanni" lesse una dichiarazione che ebbe il valore di un'assunzione piena di responsabilità per sé e la sua parte politica, indicando espressamente mandanti ed esecutori:
Le ricostruzioni di Aldo Moretti

Monsignor Aldo Moretti "Lino", medaglia d'oro al valor militare e tra i fondatori delle Divisioni Osoppo, affermò in più occasioni di ritenere che l'eccidio di Porzûs fosse stato compiuto «…nell'interesse della causa slovena, ma il comando del IX Corpus intuì che era molto utile ai suoi scopi il coinvolgere degli italiani e trovò, con l'indispensabile consenso degli uomini del PCI, un italiano, il garibaldino Mario Toffanin ("Giacca") che accettò di rendersi esecutore materiale del misfatto con la sua GAP»[130]. In un'intervista a Famiglia Cristiana del 1997, Moretti espresse anche l'opinione secondo la quale gli Alleati, pensando già al dopoguerra e temendo la collaborazione tra i partigiani cattolici e quelli comunisti, avessero cercato di dividere quel fronte fino a sacrificare la Osoppo per mano delle formazioni comuniste oramai al servizio degli jugoslavi, al fine di screditarle: «…lavorare per dividerci, anzi di sacrificarci per gettare l'ombra del discredito sulle formazioni comuniste, alle dipendenze di un esercito, quello jugoslavo, che ormai era visto come conquistatore e non più come alleato. Insomma gli Alleati erano preoccupati del loro futuro governo nella zona.»[131].
Ancora, secondo Moretti, le stesse denunce di Radio Londra contro Elda Turchetti sarebbero rientrate in tale strategia. Questi sostenne inoltre che gli attriti fra i garibaldini e gli osovani del'autunno del 1944 avevano dato la stura a voci di collaborazione tra il gruppo Osoppo e le forze nazifasciste, voci peraltro recisamente negate: «Qualche intesa umanitaria, nessun tradimento. Tentavamo solo di anticipare la pace in un angolo del fronte»[131]. In quell'atmosfera di sospetto due proposte di alleanza contro le formazioni comuniste giunsero alla Osoppo da parte del federale fascista di Udine per conto del tenente colonnello delle SS von Hallesleben, ma furono subito respinte da Moretti con due lettere, datate 28 dicembre 1944 e 10 gennaio 1945, fatte pervenire al federale di Udine tramite l'arcivescovo Giuseppe Nogara[115]. Le voci tuttavia divennero insistenti quando Cino Boccazzi, partigiano della Osoppo preso prigioniero dalla Xª Flottiglia MAS, fu effettivamente mandato a Udine (secondo la ricostruzione data da Moretti — e ribadita in sede processuale dallo stesso Boccazzi — sotto la minaccia di veder uccisa la propria moglie e i propri figli se si fosse rifiutato[131]) per cercare un contatto ai fini di una possibile intesa RSI-Alleati per la difesa del confine orientale[131]. L'ufficiale britannico in incognito a Udine Thomas Rowort "Nicholson" — a cui era stata riferita la proposta — attese prima di consultarsi con il comando a Londra, che rispose poi negativamente all'offerta così come risposero negativamente gli osovani. L'attesa rese ancora più forti le voci di una possibile trattativa tra la Osoppo e la Decima Mas[131]. Le accuse di collaborazionismo con i fascisti e con i tedeschi a fini denigratori continuarono anche dopo la fine della guerra e ancora all'inizio degli anni 2000 secondo alcune riletture di estrema sinistra dell'evento.
L'ipotesi di Moretti del coinvolgimento dei servizi segreti inglesi non fu in seguito approfondita dalla storiografia internazionale, se non da alcuni autori - segnatamente Alessandra Kersevan e Goradz Bajc - in termini più ampi, laddove le attività di detti servizi segreti vengono inserite in un quadro di doppi e tripli giochi comprendente svariati altri attori.
La tesi filojugoslava
La storiografia jugoslava non produsse alcuno studio sull'eccidio di Porzûs. Così com'era stata reclamata alla fine della Grande Guerra[132], la Slavia veneta fu richiesta ufficialmente dagli jugoslavi anche al termine della seconda guerra mondiale[133]: era comune ritenere — come affermò nel 1995 dopo la fine della Federativa il primo ministro sloveno Janez Janša nel corso della prima celebrazione della Festa del ritorno del Litorale Sloveno alla madrepatria — che se «il regime jugoslavo non avesse trascinato il Paese al di là della cortina di ferro, avremmo potuto contare anche su Trieste, Gorizia e la Slavia veneta»[134][135].
Sempre dal punto di vista filojugoslavo, in anni più recenti la tematica è stata brevemente ripresa, tra gli altri, dallo storico triestino Jože Pirjevec[136], nell'ambito di un saggio dedicato ai massacri delle foibe che ha creato una lunga serie di polemiche[137][138][139][140].
Secondo Pirjevec, nelle speranze dei comunisti sloveni e italiani l'impeto rivoluzionario comune avrebbe dovuto espandersi in tutto il nord Italia, vagheggiando addirittura che tutte le Divisioni Garibaldi «nell'Italia propriamente detta» si assoggettassero al Fronte di liberazione sloveno[141]. La Osoppo, costituendo un movimento resistenziale "bianco", per opporsi a queste mire avrebbe intrattenuto rapporti diplomatici con la Wehrmacht, con i collaborazionisti cosacchi e con la Decima Mas. Pirjevec per primo riportò la notizia secondo la quale cinque partigiani garibaldini sarebbero stati uccisi da membri della Osoppo quando fu diffusa la notizia della loro adesione al IX Korpus sloveno, ma da una verifica successiva risultò che il documento contenuto in uno degli archivi di stato russi citato dallo storico triestino a sostegno della propria affermazione in realtà non parla di «conflitti fra partigiani comunisti e partigiani democratici sul confine orientale italiano nel 1945»[142]. Sempre secondo Pirjevec, in Friuli si sarebbero manifestate delle «tendenze separatistiche (…), dove alcuni circoli pensavano di staccarsi dall'Italia e aderire come entità autonoma alla Jugoslavia». In tale contesto sarebbe avvenuto il «fatto tragico» dell'attacco gappista di Porzûs, del quale il IX Korpus sarebbe stato completamente ignaro, ma visto il successivo asilo prestato in seguito a Toffanin dagli sloveni, sarebbero sorte delle «voci tendenziose (…) che la strage fosse stata voluta da loro», il che avrebbe contribuito a far assumere al fatto, «marginale pur nella sua tragicità», delle «dimensioni sproporzionate»[143].
Altre ipotesi
In un libro apparso nel 1995, la ricercatrice friulana Alessandra Kersevan sottopose ad analisi una parte dei documenti e delle testimonianze all'epoca apparsi, il tutto presentato in maniera discorsiva come se si trattasse di un lungo colloquio fra due ricercatori[144]. Alla luce di una serie di fatti contemporanei e successivi all'eccidio, Kersevan ipotizzò che nella vicenda di Porzûs vi fosse stato un massiccio intervento manipolatorio dei servizi segreti militari angloamericani in combutta con quelli italiani, in un quadro di doppi e tripli giochi che coinvolsero il PCI, l'ignaro Toffanin — che quindi sarebbe stato strumento inconsapevole dell'imperialismo americano — nonché la Decima Mas di Junio Valerio Borghese. Nelle estreme terre nordorientali italiane si sarebbe quindi giocato fin dal 1944-1945 un prodromo della guerra fredda postbellica, con fortissime infiltrazioni fasciste repubblicane all'interno del movimento partigiano friulano, al fine ultimo di impedire il saldarsi dei movimenti comunisti sloveni e italiani in un moto rivoluzionario esteso al Nord Italia, gettando il discredito sui partigiani jugoslavi anche con altre contestuali campagne di disinformazione e manipolazione, come quella dei massacri delle foibe. In tal quadro il IX Korpus sloveno sarebbe quindi stato contemporaneamente spettatore e vittima, mentre i comandi della Osoppo sarebbero stati in realtà conniventi con i nazisti e la Decima Mas in funzione anticomunista e antislava, con la collaborazione occulta ma attiva delle potenze occidentali e la benedizione della chiesa cattolica locale, coinvolta fin nelle sue più alte gerarchie.
Tale gigantesca operazione sarebbe poi continuata col processo, considerato dalla Kersevan una montatura basata in gran parte su testimonianze e documenti falsi o manipolati, compresi fra gli altri non solo il rapporto sui fatti stilato da "Giacca" e i suoi, ma anche la famosa lettera di accusa agli sloveni e ai garibaldini che Guido Pasolini spedì al fratello Pierpaolo a novembre del 1944 e che fu poi trasmessa da quest'ultimo alle autorità inquirenti[145]. Il tutto non sarebbe stato che il prodromo delle attività di Gladio, con varie connessioni con la mafia, la P2 e lo stragismo di stato. A partire dagli anni novanta, a rafforzare tutto ciò — sempre secondo Kersevan — si sarebbe saldata un'altra manovra tutta politica a opera degli eredi del PCI (PDS, poi DS) e dei fascisti (AN): una «convergenza destra-sinistra tesa a ricostruire un immaginario condiviso anticomunista. Non è un caso che il film [Porzûs di Renzo Martinelli] sia stato finanziato dall'allora governo di centro-sinistra, cioè dal ministro della cultura Walter Veltroni, ma apprezzato anche a destra»[145]. Kersevan sostiene che, con la fuga in Jugoslavia e in altri Paesi socialisti degli imputati del processo condannati per vari reati, sarebbe stata costretta ad andarsene dal Friuli «la meglio gioventù»[145].
Una simile linea interpretativa è stata proposta anche dallo storico triestino dell'Università del Litorale di Capodistria Gorazd Bajc[146]: eccidio di Porzûs e massacri delle foibe sarebbero delle enormi montature propagandistiche montate ad arte o «incoraggiate» dai servizi segreti statunitensi per spezzare l'intesa fra comunisti italiani e sloveni. Tale fu anche un'ipotesi avanzata nel 1997 dal giudice istruttore Carlo Mastelloni nell'ambito della sua inchiesta su Argo 16, peraltro conclusasi senza alcuna conferma giudiziaria e senza alcuna condanna[147]. In tale complesso contesto denso di doppi e tripli giochi, anche la stessa figura di Mario Toffanin sarebbe da riconsiderare: alcuni lo vedrebbero addirittura come agente dei tedeschi[148].
Le controversie politiche e storiografiche sull'eccidio
Vorlage:Vedi anche Le responsabilità politiche e materiali dell'eccidio di Porzûs sono al centro di un acceso dibattito politico e storiografico[149], intersecatosi fino agli anni cinquanta con i processi ai quali furono sottoposti esecutori e presunti mandanti della strage. Gli eventi legati a Porzûs hanno acquisito un valore paradigmatico: per gli uni del tentativo di delegittimare la Resistenza proiettando sull'intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, per gli altri della natura totalitaria e antidemocratica del Partito Comunista Italiano e del carattere sostanzialmente antinazionale della sua politica[150].
Durante il processo, il PCI organizzò una campagna di stampa per ribadire le accuse di connivenza con fascisti e nazisti dei reparti della Osoppo, ritenendo che in Italia fosse sostanzialmente tornata al potere una destra direttamente connessa col regime fascista, della quale la Democrazia Cristiana era il cardine, che tramite il processo per l'eccidio voleva mettere sotto accusa il PCI e l'intero movimento resistenziale[151][152]. Della chiusura della vicenda giudiziaria per intervenuta amnistia nel 1954 non fu data notizia, e per circa quindici anni sulla vicenda cadde il silenzio.
Nel 1964 Roberto Battaglia — storico iscritto al PCI, già comandante partigiano — trattò rapidamente dell'eccidio nella sua Storia della Resistenza italiana, attribuendone la responsabilità all'odio politico divampato dall'anticomunismo di "Bolla" che si sarebbe scontrato con «l'animosa intolleranza di fanatici avversari»[153]. La tesi di Battaglia che indicò gli osovani come corresponsabili dell'eccidio, nei decenni successivi venne ripresa varie volte, in tutto o in parte, da altri autori come Giorgio Bocca[154] o Giampaolo Gallo[155]. Un altro gruppo di autori concentrò la propria attenzione sulle responsabilità degli osovani in relazione ai loro contatti con la Decima Mas, che avrebbe quindi, se non giustificato, quanto meno reso comprensibile la reazione di Toffanin e i suoi: su tale aspetto insisté per esempio Pierluigi Pallante[156].
Nel 1975 venne pubblicato il primo studio specificamente dedicato all'eccidio, Porzûs, due volti della Resistenza di Marco Cesselli, nel quale si espressero per la prima volta, sia pure con cautele, delle aperture verso una revisione della precedente interpretazione dell'eccidio e si misero in luce con chiarezza le responsabilità politiche dei massimi dirigenti del PCI friulano, ma per il resto del decennio e per quasi tutti gli anni ottanta la storia di Porzûs non suscitò quasi alcun interesse da parte degli storici accademici[157].
La questione tornò prepotentemente all'attenzione dell'opinione pubblica negli anni novanta, intersecandosi con altre polemiche quali quelle sul cosiddetto triangolo della morte[158] o quelle su Gladio, un'organizzazione paramilitare segreta sorta in ambito NATO per contrastare un eventuale attacco delle forze del Patto di Varsavia ai paesi dell'Europa occidentale, a cui aderì un numero tuttora imprecisato — presumibilmente dell'ordine di alcune centinaia — di ex partigiani della Osoppo[159]. La polemica raggiunse il suo acme quando l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel corso di una visita in Friuli fra il 7 e il 9 febbraio del 1992 incontrò pubblicamente un gruppo di appartenenti a Gladio, accusando i partigiani comunisti di aver combattuto anche per l'instaurazione di una dittatura contro gli interessi nazionali dell'Italia[160].
Nella seconda metà del decennio, le polemiche si incrociarono con un più ampio dibattito sulla revisione storiografica degli anni del fascismo e della Resistenza, notevolmente aumentato a partire dall'entrata nella maggioranza di governo del Movimento Sociale Italiano (1994) e visto nell'ottica più ampia delle questioni relative alla cessione dei territori orientali a seguito del trattato di pace del 1947, ai massacri delle foibe e all'esodo giuliano-dalmata[161][162][163][164][165]. Furono quindi pubblicati diversi articoli e saggi, che a loro volta causarono ulteriori polemiche, anche a causa della nascita e dello sviluppo di svariate ipotesi — le più diverse — sui mandanti effettivi della spedizione gappista.
Ulteriori polemiche sorsero alla notizia che alla 54ª Mostra del Cinema di Venezia del 1997 sarebbe stato presentato Porzûs, film sull'eccidio diretto da Renzo Martinelli. La proiezione fu accolta con reazioni miste tra l'indifferenza e l'entusiasmo[166], mentre Delo, il più importante quotidiano sloveno, accusò gli «ex comunisti in Italia» (PDS) di utilizzare un film sul «più celebre falso storico organizzato dai servizi segreti italiani» per condurre una «guerra di propaganda» contro Slovenia e Croazia al fine di porre «i due paesi sotto l'influenza dell'Italia»[167][168].
Fra il 2001 e il 2003 vi furono due tentativi di riconciliazione: il primo fu il già citato incontro fra "Vanni" e il sacerdote osovano don Redento Bello "Candido" (23 agosto 2001)[129]; il secondo, sempre organizzato da "Vanni" e "Candido", coinvolse anche i vertici dell'Associazione Partigiani Osoppo e una serie di politici locali e nazionali (9 febbraio 2003)[169][170][171], ma i rapporti fra reduci osovani e garibaldini non si rasserenarono completamente.
Ormai sdoganato come argomento di studio, anche nel nuovo secolo l'eccidio di Porzûs non è scevro di interpretazioni difformi anche all'interno delle stesse opere storiografiche, riproponendo di quando in quando alcuni tipici approcci degli anni precedenti[172]. L'attuale panorama storiografico fa quindi ancora ritenere ad alcuni che «Nonostante decenni di polemiche e ricerche, non è comunque tuttora disponibile un'esauriente ricostruzione che inquadri l'episodio nel suo contesto, analizzando l'eccidio in relazione al tema più generale non solo dei rapporti interni alla Resistenza italiana e della politica del PCI, ma anche delle relazioni tra le altre forze in campo, i comunisti sloveni e la X Mas»[173].
Il 29 maggio 2012 avrebbe dovuto tenersi la prima visita ufficiale di un presidente della Repubblica italiana — Giorgio Napolitano — alle malghe di Topli Uork[174]. Per motivi organizzativi, il Capo dello Stato in seguito non si è recato fino al luogo ove iniziò l'eccidio ma nel vicino comune di Faedis, dove ha scoperto una targa in memoria dei trucidati. Nel suo discorso, Napolitano ha definito l'eccidio di Porzûs «tra le più pesanti ombre che siano gravate sulla gloriosa epopea della Resistenza» individuandone le radici in un «torbido groviglio [di] feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell'Italia, in una zona martoriata come quella del confine orientale del nostro Paese»[175]. Nonostante l'invito di Napolitano alla riconciliazione fra le diverse anime della Resistenza italiana, i contrasti fra ANPI e APO (Associazione Partigiani Osoppo) non risultano superati: quest'ultima chiede all'ANPI di sottoscrivere il documento di assunzione di responsabilità e di scuse presentato ufficialmente nel 2001 da Giovanni Padoan "Vanni", già commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone, mentre la prima chiede che sia l'APO a fare un primo passo[176].
Le malghe di Porzûs come bene di interesse culturale
Il 18 gennaio 2010 la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia emise un decreto che rendeva di «interesse culturale» il «bene denominato Malghe di Porzûs», ma a seguito di una serie di polemiche derivanti dal contenuto della relazione storica allegata, il provvedimento fu revocato dall'allora ministro per i beni culturali Sandro Bondi[177]. Corretta la relazione storica, il decreto fu reiterato a novembre dello stesso anno[178].
Da tempo è attivo l'iter procedurale per dichiarare le malghe di Porzûs monumento nazionale[179]. Alcuni dirigenti dell'ANPI si sono opposti all'iniziativa, così come alla proposta di intitolare alcune vie cittadine ai «martiri di Porzûs»[180].
La memoria
L'Associazione Partigiani Osoppo-Friuli, nata nel 1947 e non facente parte dell'ANPI, bensì della Federazione Italiana Volontari della Libertà, fin dai primi tempi della propria fondazione ha mantenuto vivo il ricordo dell'eccidio di Porzûs. Da svariati anni, in occasione dell'anniversario dell'assalto gappista, organizza quindi una cerimonia direttamente alle malghe di Topli Uork, in genere accompagnata da altre manifestazioni di tipo storico/rievocativo o commemorativo, quali mostre, convegni, presentazioni di libri, messe e concerti. Nel periodo estivo viene invece organizzato un incontro al Bosco Romagno, a ricordare gli osovani ivi uccisi[181]. Entrambe le manifestazioni sono state variamente contrastate e contestate da vari gruppi della sinistra estrema oltre che, in certi casi, dall'ANPI. In anni più recenti alcune volte le critiche hanno trovato supporto nelle teorie storiche di Alessandra Kersevan[182][183][184]. Solo nel 2009 un rappresentante dell'ANPI, a titolo personale, ha partecipato alla cerimonia alle malghe[185].
Note
Bibliografia
- Saggistica
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- Vorlage:Cita libro Tesi di dottorato poi pubblicata con il titolo Vorlage:Cita libro
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- DVD
Voci correlate
- Inquadramento generale
- Reparti
- Persone
- Alfredo Berzanti
- Francesco De Gregori
- Mario Lizzero
- Aldo Moretti
- Giovanni Padoan
- Guido Pasolini
- Mario Toffanin
- Altro
Collegamenti esterni
- Saggi
- Paolo Deotto, Strage di Porzûs. Un'ombra cupa sulla Resistenza, da Storia in Network.
- Interviste
- Porzûs. Così quella strage ha mandato in "crisi" il Pci (e Togliatti). Intervista a Patrick Karlsen da Sussidiario.it.
- Articoli di quotidiani
Gli articoli de La Stampa possono essere letti al seguente indirizzo:
Vorlage:Portale Vorlage:Antifascismo
- ↑ Le parole «tragedia», «tragico», «controversia», «controverso» sono state utilizzate innumerevoli volte per definire l'eccidio: si vedano a titolo d'esempio Vorlage:Cita news («tragedia di Porzûs»); Vorlage:Cita news («uno degli episodi più spaventosi e controversi della Resistenza»).
- ↑ Le riflessioni in questo campo hanno aperto i più vari filoni di ricerca: Patrick Karlsen — dopo aver analizzato lo stridente contrasto nella stampa comunista degli anni successivi alla rottura Tito-Stalin (1948) fra il tono inneggiante a Tito della difesa dei gappisti accusati nel corso del processo per l'eccidio e le coeve accuse a Tito di essere «alleato dei nazisti e in combutta con gli angloamericani dal 1941-42» — afferma che «si impone a partire da queste tracce una riflessione sui metodi e le conseguenze della propaganda del Pci, in termini di informazione ed educazione dei suoi iscritti a una consapevole cittadinanza democratica, anche a prescindere dal caso del confine orientale»: Vorlage:Cita. Sul tema anche Vorlage:Cita libro
- ↑ Numerosissimi furono gli articoli di riflessione politica sull'eccidio, concentrati soprattutto fra gli anni 1951-1954 e dal 1990 in poi. La stampa del PCI nel primo periodo ha definito tutta la vicenda come una grossa campagna propagandistica messa in campo dalle forze fasciste - fra le quali veniva annoverata la Democrazia Cristiana - «per dimostrare che il Partito Comunista è un partito di traditori della patria»: Vorlage:Cita news. Nel periodo successivo al 1990 invece l'eccidio venne identificato — alle volte da stessi appartenenti al PCI, come Antonello Trombadori — come uno degli «scheletri nell'armadio» del partito: «PCI un'altra pagina nera», Stampa Sera, 8 settembre 1990, p. 2.
- ↑ Gli storici Tommaso Piffer e Patrick Karlsen hanno dedicato al tema due saggi specifici dal titolo — rispettivamente — di «Strategia e politiche delle formazioni partigiane comuniste italiane» e «Il PCI di Togliatti tra via nazionale e modello jugoslavo (1941-1948)», all'interno di un testo collettaneo dedicato a Porzûs: Vorlage:Cita.
- ↑ Secondo lo storico Giovanni Belardelli, «La ragione principale (...) che agli occhi di molti ha reso l'eccidio di Porzûs un vero e proprio tabù storiografico, ha a che fare con la difficoltà o l'imbarazzo di riconoscere che, sul confine orientale, la politica del Pci aveva sostanzialmente accettato la strategia di Tito che puntava ad annettere il territorio italiano fino all'Isonzo.» Vorlage:Cita news.
- ↑ Uno dei motivi principali per cui l'eccidio di Porzûs ha sempre mosso «profonde passioni» risiede nel fatto che «l'immagine del PCI (...) da queste vicende usciva pesantemente compromessa»: Vorlage:Cita
- ↑ «La posizione del PCI deriva (...) da considerazioni che esulano dal contesto locale e che rimandano agli equilibri tra le diverse forze del comunismo internazionale»: Vorlage:Cita.
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- ↑ La questione del coinvolgimento del PCI nell'eccidio, vista nel quadro dei suoi rapporti con gli altri partiti del CLN e con la nascente Jugoslavia di Tito, fu uno degli aspetti maggiormente discussi fin dagli anni della Resistenza, tanto che il partito produsse diversi documenti per cercare di spiegare la propria posizione. Parte di tali documenti fu anche esibita nel corso dei processi per l'eccidio negli anni cinquanta, soprattutto per respingere l'accusa di tradimento elevata giudiziariamente contro i gappisti e le strutture direttive del PCI friulano. Si veda a titolo d'esempio Ferdinando Mautino, «Un documento del PCI sulla condotta dei garibaldini», l'Unità, 5 dicembre 1951, p. 5.
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- ↑ Nei giorni immediatamente successivi all'armistizio dell'8 settembre, le strutture direttive dei movimenti di liberazione sloveni e croati promulgarono due distinte dichiarazioni, con le quali proclamarono annesse alla Jugoslavia l'Istria (suddivisa fra Slovenia e Croazia) e la Venezia Giulia (alla Slovenia). Le dichiarazioni furono confermate il 30 novembre 1943 a Jajce dal massimo organo federale, la Presidenza del Consiglio Antifascista di Liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ). Sul punto si veda Egidio Ivetic (a cura di), Istria nel tempo. Manuale di storia regionale dell'Istria con riferimenti alla città di Fiume, Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, Unione Italiana di Fiume, Università Popolare di Trieste, Rovigno 2006, p. 566.
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- ↑ Braccio destro di "Bolla", scampò all'eccidio in quanto assente da Porzûs il 7 febbraio 1945.
- ↑ Su Emilio Grossi si veda Alberto Magnani, «Emilio Grossi a Vercelli. La presa di coscienza di un ufficiale dell'esercito», Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
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- ↑ Il primo a parlare di tale colloquio — collocandolo a Bari — fu Paolo Spriano, che citò in tale occasione anche la presenza di «due altri dirigenti comunisti jugoslavi», il cui nome non fu mai appurato con assoluta certezza, anche se alcune fonti sostengono che uno dei due sarebbe stato Milovan Gilas (cfr. Giampaolo Valdevit, La crisi di Trieste. Una riflessione storiografica, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1995, p. 49). Si veda in proposito Vorlage:Cita. Kardelj afferma che per incontrare Togliatti viaggiò «da Bari a Roma». Roma è il luogo indicato anche da Vorlage:Cita e da Aga Rossi (Vorlage:Cita).
- ↑ La minuta di Kardelj è riportata in svariate fonti, fra le quali Vorlage:Cita.
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- ↑ Vorlage:Cita
- ↑ La questione è riassunta fra gli altri da Giovanni Gozzer, «Porzûs: una Yalta giuliana», Centro Studi della Resistenza (pubblicato originariamente sul Corriere del Ticino, 17 novembre 1997) e da Roberto Roggero, Oneri e onori: le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia, Greco & Greco Editori, 2006, ISBN 9788879804172, pp. 430-431; in questi articoli il nome di Zocchi "Ninci" è riportato erroneamente come "Bocchi". Per una più dettagliata ricostruzione v. Vorlage:Cita.
- ↑ a b c Vorlage:Cita.
- ↑ Si vedano in estratto alcune relazioni del comandante della Osoppo Francesco De Gregori "Bolla" in Primo Cresta, «Gorizia e la sua lotta di liberazione» in I cattolici isontini nel XX secolo. III. Il goriziano fra guerra e ripresa democratica (1940-1947), Istituto di Storia Sociale e Religiosa, Gorizia 1987, pp. 231-257.
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- ↑ Secondo la relazione del maggiore MacPherson del SOE, il battaglione partigiano sloveno Rezianska annunciò alla popolazione che Trent era stato portato «davanti alla giustizia» delle loro brigate, mentre tre osovani che gli facevano da scorta affermarono che era stato ucciso in uno scontro con i tedeschi. In Vorlage:Cita si ipotizza che Trent potrebbe essere caduto in un tranello tesogli dagli sloveni e consegnato ai tedeschi.
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- ↑ A oggi non sono ancora note le lettere inviate dagli sloveni cui i garibaldini rispondevano. Che si tratti di pressioni per intervenire contro la Osoppo lo si desume quindi dai contenuti delle missive garibaldine.
- ↑ Vorlage:Cita pubblicazione
- ↑ Vorlage:Cita
- ↑ Giovanni Di Capua, Resistenzialismo versus Resistenza, Rubbettino 2005, ISBN 9788849811971, p. 110.
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- ↑ Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria, Mondadori, Milano 2002, p. 195.
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- ↑ Secondo le direttive del Comando generale del Corpo volontari della libertà del Nord Italia, emanate nell'ottobre 1944, ogni forma di collaborazione con i soldati della RSI e con le forze germaniche era da considerare come tradimento da punire con la condanna a morte, ma dalle ricostruzioni del dopoguerra risultò che era sempre stata la Xª MAS a cercare degli accordi con la Osoppo per opporsi alle mire jugoslave sui territori orientali italiani, ottenendone però sempre un rifiuto. Sul tema si veda anche la ricostruzione di tutta la vicenda dalla parte della Decima Mas in Mario Bordogna, Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia MAS, Mursia 1995, ISBN 88-425-1950-2.
- ↑ Si riportano qui le ricostruzioni tratte da Vorlage:Cita, assieme ai resoconti della stampa dell'epoca e all'ampio riassunto contenuto in Vorlage:Cita.
- ↑ Zio dell'omonimo cantautore romano.
- ↑ Tale era definita nei reparti osovani la figura nota come "commissario politico" fra i garibaldini.
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- ↑ Emerati testimoniò al processo, rilasciando poi delle interviste negli anni ottanta e novanta, nelle quali raccontò la storia di quel giorno. Cfr. Paola Treppo, «Vent'anni fa un filmato ricco di testimonianze che precorse i tempi», Il Gazzettino, 10 febbraio 2008.
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- ↑ Il 14 marzo successivo fu arrestato dal IX Korpus anche Marino Cicuttini "Cecco", vicecomandante della VI Brigata Osoppo-Friuli, che però riuscì a fuggire dall'improvvisata prigione nella quale era stato rinchiuso assieme a "Make", "Rinato" e "Vandalo", nella latteria-scuola di Obenetto (Zavart di Drenchia): Vorlage:Cita.
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- ↑ Giovanni Padoan, «La regia dei fatti di Porzûs», da Porzûs: strumentalizzazione e realtà storica, Edizioni della Laguna, 2000.
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- ↑ a b Iurich (o Jurich) non partecipò all'attacco alle malghe di Topli Uork, essendo lo stesso giorno impegnato con un altro gruppo di gappisti nell'assalto alle carceri di Udine, dalle quali furono liberati 73 partigiani. In merito si veda Pierluigi Visintin, «L'assalto alle carceri di Udine: un'azione romanzesca», Patria Indipendente, 10 dicembre 2004, pp. 25-26.
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- ↑ Fernando Bandini, Laura Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977, p. 226
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- ↑ Il conteggio risulta invece di 704 anni, 2 mesi e 10 giorni per La Stampa: Vorlage:Cita news.
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- ↑ Lo stesso Padoan, dopo il periodo cecoslovacco, si era trasferito in Romania, lavorando come redattore di trasmissioni radiofoniche (Vorlage:Cita news)
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-Tag; kein Text angegeben für Einzelnachweis mit dem Namen bianchi247. - ↑ Le note sono basate su Vorlage:Cita. In caso opposto, viene citata direttamente la fonte alternativa.
- ↑ Dino Messina, Porzus: si spara ancora, sul film, in Corriere della Sera, 29 agosto 1997, p. 29.
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- ↑ a b Referenzfehler: Ungültiges
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- ↑ Alfio Caruso, Tutti vivi all'assalto, Longanesi, Milano 2003, p. 358.
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- ↑ a b Vorlage:Cita news
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- ↑ Vorlage:Cita news
- ↑ Antonio Giulio de Robertis, La frontiera orientale italiana nella diplomazia della II guerra mondiale, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 1981, p. 247.
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- ↑ a b Vorlage:Cita news
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- ↑ a b c d e Vorlage:Cita news
- ↑ Ivo Lederer, La Jugoslavia dalla conferenza della pace al trattato di Rapallo 1919-1920, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 140 ss.
- ↑ Documento ufficiale della Commissione storica italo-slovena, 2001, paragrafo 4, Periodo 1945-1956
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- ↑ Le parole di Janša produssero un'interrogazione parlamentare del deputato di AN Roberto Menia: Vorlage:Cita web.
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- ↑ Vorlage:Cita. La confutazione della fonte è a opera di Patrick Karlsen ed Elena Aga Rossi, che contattarono i responsabili dell'archivio, V. Šepelev e S. Rosental. Il virgolettato è tratto direttamente dalla risposta di questi ultimi, citata in Vorlage:Cita.
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- ↑ Vorlage:Cita.
- ↑ a b c Alessandra Kersevan. «Porzûs: il più grande processo antipartigiano del dopoguerra». AA.VV., Foibe. Revisionismo di stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu, Udine 2008, pp. 115 ss.
- ↑ Gorazd Bajc, Operacija Julijska Krajina. Severovzhodna meja Italije in zavezniške obveščevalne službe, 1943-1945, Univerza na Primorskem – Znanstveno-raziskovalno središče, Zal. Annales, Koper 2006
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- ↑ Vorlage:Cita news; più tardi, nel 2005, RCS, Ferruccio De Bortoli e Gian Antonio Stella, su iniziativa legale promossa dai congiunti di Lizzero, furono ritenuti civilmente responsabili di espressioni giudicate «offensive della memoria» del defunto commissario politico partigiano e condannati al risarcimento dei danni morali, come da dispositivo della sentenza pubblicato sullo stesso quotidiano.
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- ↑ Vorlage:Cita
- ↑ Vorlage:Cita news
- ↑ Vorlage:Cita news
- ↑ Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1964, pp. 442-443.
- ↑ Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana, Bari, Laterza, 1966, p. 441.
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- ↑ Vorlage:Cita libro
- ↑ Secondo la storica Elena Aga Rossi, all'inizio del decennio «il solo nominarla veniva considerato come un tentativo di screditare il movimento partigiano»: Vorlage:Cita news
- ↑ Si veda Otello Montanari, «Rigore sugli atti di "Eros" e Nizzoli», Il resto del Carlino, 29 agosto 1990: l'articolo venne immediatamente ribattezzato «Chi sa parli».
- ↑ Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia, 1943-1976, Roma, Odradek 2003.
- ↑ Vorlage:Cita news
- ↑ Elena Aga Rossi, «Il PCI tra identità comunista e interesse nazionale» in Marina Cattaruzza (a cura di), La nazione in rosso: socialismo, comunismo e interesse nazionale 1889-1953, Rubbettino 2005
- ↑ Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria, Milano, Mondadori 2003
- ↑ Giovanni Sale, Il Novecento fra genocidi, paure e speranze, Milano, Jaca Book 2006
- ↑ Glenda Sluga, The problem of Trieste and the Italo-Yugoslav border: Difference, Identity, and Sovereignity in Twentieth-Century Europe, State University of New York Press, 2002
- ↑ Philip D. Morgan, The fall of Mussolini: Italy, the Italians, and the Second World War, Oxford University Press, 2008
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- ↑ Si veda per esempio il lemma di Marco Puppini, «Friuli, divisione Osoppo», in Enzo Collotti, Roberto Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, Torino, Einaudi 2001, p. 200, nel quale di afferma che il 7 febbraio del 1945 «l'intero comando della I brigata Osoppo è arrestato da uomini dei GAP a Porzûs» senza indicarne poi la sorte.
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- ↑ Il 9 maggio 2010, durante una conferenza stampa, Carlo Giovanardi contestò la correttezza della relazione storica allegata al decreto, affermando che alcuni dei contenuti della stessa sembravano ripresi da Wikipedia (cfr. Dino Messina, «Il pasticcio ministeriale sull'eccidio di Porzus», Corriere della Sera, 27 maggio 2010; «Pasticcio storico su Porzûs: Bondi blocca il riconoscimento», Messaggero Veneto, 27 maggio 2010. Il 25 maggio anche il quotidiano cattolico Avvenire, attraverso un editoriale dello storico Paolo Simoncelli («Sulla strage di Porzûs strane ipocrisie», 26 maggio 2010), denunciò come erronea la versione dei fatti fornita dal decreto. Secondo Simoncelli la ricostruzione non rese giustizia di quanto storicamente accaduto e successivamente condannato dai tribunali. A tale articolo fecero seguito diversi interventi sui quotidiani nazionali. Per la revoca del provvedimento, si veda Porzûs, il ministero cambia rotta, in Avvenire, 28 maggio 2010.
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- ↑ È il caso di Giorgio Coianiz, presidente della sezione di San Giorgio di Nogaro (UD) dell'ANPI, che ha inviato una lettera aperta a tutti i consiglieri comunali del suo paese, nonché ai consiglieri della provincia, stigmatizzando quelli che a suo parere appaiono dei tentativi "beceri e populisti" di "riseminare odio" (cfr. «L'ANPI scrive ai politici: su Porzûs non siete informati», Messaggero Veneto, 19 agosto 2010).
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- ↑ Vorlage:Cita news; nell'articolo si riporta l'opinione di Federico Vincenti, presidente dell'ANPI per la provincia di Udine, che fra l'altro ha dichiarato: «(…) la strage alle malghe è imputabile a Mario Toffanin. La responsabilità è sua e invece hanno cercato di infangare il comandante e il commissario della Garibaldi e peraltro i loro diffamatori sono stati condannati di recente dal tribunale. È ora di finirla con il revisionismo storico che ha colpito e umiliato la nostra Resistenza friulana, una delle più forti in Europa»
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